Diario dalla Tunisia - 2013

Rieccoci in Tunisia.
L'anno scorso ci eravamo fermati alcune settimane, nel mese di febbraio.
Riprendiamo la nostra ricerca sui siciliani di Tunisia, approfittando di un invito che è arrivato da Tunisi: A Dar Bach Hamba verrà proiettato il nostro cortometraggio Kif Kif - siciliani di Tunisia all'interno di un programma più vasto, che vede al Centro la Sicilia e i suoi storici rapporti con il paese Nord Africano. 
In realtà, la serata, si rivelerà meno entusiasmante di ciò che avevamo immaginato.
L'organizzazione dell'evento, esterna allo stesso Dar Bach Hamba, dimostra uno scarso livello di conoscenza del tema e una discutibile conduzione della serata.

Venerdì 12 aprile
Facciamo un giro dentro la Medina di Tunisi, storico quartiere e mercato nel cuore della città, un intrecciarsi e annodarsi di stradine, vicoli strettissimi, dove si vende di tutto e dove abita il popolo da sempre. Dar Bach Hamba, la Casa delle Culture, si trova al suo interno.
È uno splendido spazio, un'antica casa araba che ha avuto svariati utilizzi nel passato e da una decina di anni punto di riferimento della Fondazione Orestiadi di Gibellina, pensata e voluta dal Senatore Ludovico Corrao. Decidiamo di andarci prima della presentazione del nostro lavoro, anche perché vogliamo incontrare Federico Costanza, direttore del centro, che conosciamo già dallo scorso anno.
Ci soffermiamo un po' dentro, visitiamo lo spazio in attesa che arrivi Federico.



Intanto è ora di pranzo e allora decidiamo di cercare un posto per mangiare.
Ci addentriamo dentro la Kasba, superiamo una parte di mercato e sbuchiamo in una zona più abitata, con piccole botteghe che si aprono sulla strada.


Muri bianchi, porte e finestre azzurre. Decidiamo di stare così senza meta, perderci.
Poi ad un certo punto una piccola porta sulla strada con una scritta in arabo sul muro desta la nostra curiosità. Un piccolissimo ristorante.
Ci piace e decidiamo di entrare. È la casa di una famiglia giovane. Lui al banco, cucina triglie fritte e prepara insalate. Un piccola vetrina con pochi condimenti poveri. Nel retro dove si mangia, la moglie, che lo aiuta dappertutto, cucina cous cous e carne di agnello. Si intravede appena il cortile interno, col resto della casa, da cui poco dopo sbuca Syrin, una bimbetta simpaticissima e furba, incuriosita della nostra presenza.
Siamo gli unici stranieri. In realtà questi piccolissimi posti sono frequentati soltanto da tunisini, per lo più lavoratori che fanno una pausa. Syrin vede e sente ogni giorno questa gente, che parla solitamente arabo. La lingua italiana la incuriosisce. Domanda alla madre chi siamo e ridacchia, correndole dietro. Nel giro di pochi minuti giochiamo con lei e la nostra piccola fotocamera diventa il mezzo con cui dialogare.
Mangiamo un piatto di cous cous e una baguette condita con tonno e insalata. Poi arriva la giovane zia. Ha una piccolissima bottega di bigiotteria, nel cuore della Medina. Ci chiede se vogliamo visitarla, per venderci qualcosa. Andiamo con lei e Syrin, dopo aver bevuto del the alla menta e pagato l'esiguo conto: 10 dinari, più o meno 5 euro, in due.


Ci incamminiamo per stradine e vicoli strapieni di gente. Arriviamo in una zona davvero vecchia, consumata e affascinante. Nel cuore del Suk, il grande mercato di Tunisi, si aprono dei passaggi, vere e proprie gallerie espositive, con gioiellerie e negozi di artigianato di qualità. Ci sono spaccati di questa realtà decisamente suggestivi.
La bottega di Amel è un buco, dove entriamo a malapena tutti e quattro. Lei mostra a Laura una serie di manufatti. Non abbiamo dinari con noi, gli ultimi cambiati li abbiamo spesi proprio nel piccolo locale dove abbiamo mangiato. La gente che incontriamo in questo paese è sempre molto generosa e alla fine Amel regala a Laura un paio di orecchini. Laura, allora, si sfila dall'orecchio un piercing e lo dona ad Amel.


Dobbiamo andare. Si avvicina l'orario della presentazione del nostro lavoro. Benché ci troviamo nel centro di un groviglio di vicoli, riusciamo ad arrivare a Dar Bach Hamba, in anticipo addirittura. Laura decide di pettinarsi i capelli e cerca una parrucchiera, che vedi caso sta a pochi metri dalla casa italiana. La bottega è sbarrata all'ingresso da un grande telo, una coperta, e soltanto il soffio di qualche corrente d'aria, che si insinua tra i vicoli stretti, permette di lanciare un rapido sguardo. È un luogo esclusivamente femminile, sacro, uno di quei luoghi antichi, dove la donne possono ritagliarsi spazi propri, certamente off-lmits per gli uomini. Laura mi racconterà più tardi dello stupore delle donne nel trovarsi una cliente bionda, europea, con gli occhi azzurri. È entrata in un posto in cui si parla arabo e le parrucchiere sono sorde, ma anche in queste condizioni precarie riusciranno a comunicare e capirsi.
Intanto a Dar Bach Hamba comincia ad arrivare gente.
La giornata è dedicata appunto ai siciliani che emigrarono in massa verso la Tunisia dalla metà dell'ottocento, dando vita ad un ennesimo episodio importante nella storia delle emigrazioni italiane nel mondo. Tante le persone che cominciano ad affollare il salone degli appuntamenti culturali della Casa della Cultura siculo-araba, tra cui un gruppetto di anziani, gli ultimi, dicono (anche se non è esattamente così) della generazione rimasta in Tunisia, dopo l'indipendenza di metà novecento, a differenza della maggioranza dei connazionali di origine, che lasciarono drammaticamente il paese, perché avevano perduto tutto.
Gli anziani vivono in una casa di riposo alla Goulette, storico punto d'approdo per migliaia di stranieri che in questo Paese cercarono fortuna, oggi luogo turistico e porto commerciale della capitale. Assistono commossi ad una serata organizzata troppo velocemente, che non lascia loro (e nemmeno tanto a noi) spazio per un approfondimento, una testimonianza. Nella stessa serata, tra gli ospiti, anche Franco Blandi, autore del libro Appuntamento alla Goulette, Marinette Pendola, autrice di importanti libri sulla memoria di questa storia, Manuel Giliberti, regista di un documentario, che vede protagonisti alcuni degli ospiti anziani della serata.


A tutti noi sono concessi pochi minuti per parlare del proprio lavoro e della propria esperienza e nessuno ancora oggi comprende perché un'occasione simile sia stata sprecata in tal modo.
In ogni caso tengo a sottolineare che la responsabilità sulla conduzione di questo evento non è assolutamente da attribuire a Dar Bach Hamba, che si è limitata a mettere a disposizione gli spazi per l'evento, e che anzi ha contribuito al meglio perché tutto procedesse bene.
In ogni caso c'è molta gente e per noi è un'occasione in cui poter stabilire contatti fondamentali al percorso del nostro progetto.


Tra i tanti conosciamo, finalmente, Silvia Finzi, figlia di Elia, fondatore della storica Tipografia omonima, oggi Casa Editrice. La famiglia ebrea, proveniente da Livorno, è tunisina da generazioni. Costituisce la memoria storica, scritta e pubblicata, di questa vicenda umana.
Poi ecco arrivare il Cavaliere Ingrassia (a dire il vero lui non ama presentarsi con questo titolo, stampato sul suo bigliettino da visita, che si affretta a darci). Un elegante e simpatico signore novantenne, che comincia da subito a raccontarci fatti della sua vita: il padre fu una figura importante per questa famiglia. Negli anni '30 fondò una società di trasporti con i camion a motore diesel, i primissimi ad arrivare in Tunisia. Con il Cavaliere, come con Silvia Finzi ci ritroveremo nei giorni a seguire ospiti nelle loro case.
I 300 cannoli, infine, che avevamo portato dalla Sicilia (non per nostra iniziativa, ma su richiesta e cortesia) non appariranno mai quella sera...
Ma per fortuna quegli incontri apriranno a momenti davvero intensi e profondi, che ci faranno dimenticare in fretta le mancanze dell'organizzazione.

Sabato 13 aprile 
Con Marinette Pendola, scrittrice di questa memoria, e suo marito Edouard Migliore, siciliano di Tunisia anche lui, avevamo deciso di raggiungere i luoghi dell'infanzia di lei, luoghi in cui già l'anno scorso, dopo ricerche non facili e difficoltà di ogni tipo, avevamo scoperto, felici di averci messo i piedi, orgogliosi di un'impresa riuscita, simbolo per noi di apertura di questo “viaggio” sulle traccie di vecchi emigranti. Lì avevo filmato alcuni istanti, inseriti poi nel cortometraggio Kif Kif-siciliani di Tunisia.
Ritornarci per la seconda volta con Marinette è davvero una bella sensazione.
Marinette e Edouard passano a prenderci al nostro Hotel, il Naplous, intorno le nove del mattino. Noi eravamo lì ad aspettarli da un'ora, convinti del ritardo della coppia, soltanto perché avevamo dimenticato, dal nostro arrivo, di spostare le lancette dell'orologio in avanti di un'ora. I soliti rincoglioniti.
Proviamo ad uscire dalla bolgia del traffico di Tunisi. La bianca Tunisi, ricca di architettura coloniale, francese, italiana. Palazzi bianchi e infissi azzurri. I marciapiedi pullulano di gente. 

Di giorno è così, a differenza della notte, quando la città è decisamente più vuota. I forti odori di cibo
ci fanno spesso pensare a Palermo. Il cuore di due città che, per molti versi, si somigliano. Mezz'ora e poi finalmente fuori dal caos. Lungo il percorso in auto riconosciamo posti in cui la scorsa volta ci eravamo soffermati per incontrare Jean e Berta, gli anziani fratelli che non hanno mai abbandonato la Tunisia. Comincia la campagna.

L'acquedotto romano, conservato in gran parte, è di grande impatto visivo. Andiamo in direzione Zaghouan, una città antichissima, che dà il nome anche alla montagna azzurra, un mito per Marinette, che da bambina la immaginava come un vecchio nonno, un saggio, col quale consigliarsi e consolarsi.
Davvero quella montagna, vista ad una certa distanza, è di colore blu cobalto! Proprio come lei sostiene nell'incipit de La riva lontana



Sulla strada che porta in quei luoghi, Marinette ci indica alcune vecchie abitazioni di siciliani vissuti lì. Poi dice di ricordarsi una stradina che porta alla casa di Pietro la Bestia. Costui, narrato nel suo libro di memorie, era un uomo ritroso e misterioso. L'episodio che lo riguarda suscita al lettore un certo brivido misto al fascino per certe credenze millenarie. Arriviamo proprio alla casa, situata lungo il bordo della stradina. Qualcuno la abita. Scendiamo dall'auto. Io e Edouard ci dirigiamo verso il retro di questo vecchissimo rudere che fa parte di una piccola fattoria.
Ci viene incontro un vecchio, e poi un altro uomo più giovane. Sono pastori e contadini. Molti di loro hanno abitato queste case dopo l'esodo dei siciliani verso l'Europa a metà novecento.
Il vecchio ci conferma che questa casa era di gente di origine italiana, ma lui si ricorda che ci abitava Raffaele, non Pietro. Marinette invece è certa, sono luoghi della sua infanzia. Ricordi troppo forti e profondi per rischiare di sbagliare o confondersi.
Una quindicina di minuti e poi andiamo via. Il nostro obbiettivo è arrivare a Oued el Kadra, dove sorgono i resti del casotto di campagna della famiglia Pendola e di altri siciliani. Passiamo obbligatoriamente da Bir Halima, il villaggio più vicino ai nostri luoghi.

Di Bir Halima avevo scritto nel Diario 2012.
Un villaggio povero, di case vecchie e nuove, umili dimore, tra strade di terra che diventano un fiume di fango in inverno, e nuvole di polvere nelle stagioni più calde. Dopo alcune titubanze di Marinette circa l'uscita sterrata da prendere, entriamo in quella che anche a me suscita ricordi e particolari vividi.
L'anno scorso il fango che avevamo attraversato la rendeva diversa, forse perché bisognava stare attenti a non uscire fuori strada, piuttosto che godere di quel bellissimo paesaggio, molto simile a quello siciliano. Edouard guida come se fossimo in autostrada, e questo comporta sobbalzi continui che fanno sospirare Marinette e Laura, le quali, pur non nascondendo un certo fastidio, sopportano. Ridiamo. Edouard, ci tiene sempre a sottolinearlo, sono un siciliano di Tunisia, ma mica un campagnolo come mia moglie! Lui da ragazzo ha vissuto sempre in città, a Tunisi!”.
Questo giornata con loro è bella e piacevole. Facciamo alcuni chilometri attraversando la strada carrettiera, e dopo un solo errore di orientamento, arriviamo alla casa di Marinette, della sua famiglia. Un rudere, il rudere che avevamo scoperto e visitato l'anno prima. Il tetto ormai è quasi completamente caduto. Quello di tegole rosse, da tenere sempre a mente per comprendere la differenza tra le case arabe e quelle italiane e francesi.
Sembra esserci stati ieri. È passato un anno da quando siamo stati li. Questo posto mi racconta tante cose. Marinette lo descrive cosi bene nel suo libro, che la prima volta che ci misi piede, sembrava che lo conoscessi da sempre.


Certamente la mia passione per i casolari dell'antico mondo contadino siciliano, tutti quelli visti e toccati, facilmente mi riportano a questa dimensione, insieme ad un paesaggio che, per caratteristiche così simili al nostro siciliano, immagino riuscì a consolare gli animi tristi dei primi migranti siciliani che si erano lasciati alle spalle una terra a cui erano profondamente legati: finalmente avevano trovato la sua continuazione!
Entriamo nella vecchia casa per ascoltare e registrare i ricordi, la memoria di quella esistenza. La cosa che colpisce tutti, in primis Marinette, è la dimensione degli ambienti della casa. Lei stessa dice: “è incredibile come siano piccoli e come mi sembravano grandi da bambina”.Poi si ricorda cosa c'era in quell'angolo, su quella parete, la quotidianità...
Infine scopre, tra le macerie del tetto sfondato, sul quale di fatto ci muoviamo, i resti delle mattonelle di maiolica che la madre aveva messo in cucina. Ad un tratto le parole finiscono e Marinette si muove in quel che rimane delle tre stanze. Facciamo un giro intorno al casolare. Ci sono anche gli ulivi, quelli che il padre aveva piantato. Io filmo quel che accade, ormai, in silenzio.


Poi Marinette, Laura ed Edouard ritornano verso la macchina. Continuano le narrazioni e i ricordi. Ad un certo punto ecco arrivare qualcuno, un ragazzo che conosce questa storia, questi luoghi, le persone che li abitarono, e si unisce al coro di voci. Io rimango dentro la casa Pendola, qualche metro più su. Le parole mi arrivano frammentate e si disperdono nel vento.
Voglio ancora calarmi in questa dimensione familiare che avevo letto tra le righe del libro di Marinette, le cui parole, più simili a immagini cinematografiche, mi avevano già portato in questi luoghi prima che ci arrivasi veramente.
La giornata è calda e la luce è magnifica. Vorrei restare ancora in questa terra e magari mangiare pure lì, intorno agli ulivi. Ma abbiamo un programma. Ci sono altri luoghi intorno da vedere e gente con cui parlare.
Si è fatta ora di pranzo. Edouard e Marinette ci invitano a mangiare in un agriturismo della zona che conoscono. Il proprietario sembra un boss, vestito in abiti tradizionali, occhiali scuri neri. Il posto è un po' finto, forzato nella sua rappresentazione, un posto chic, in una zona rurale fatta di villaggi poveri. Una certa borghesia benestante tunisina è seduta a quei tavoli. Sembrano impiegati di banca o funzionari di qualche ministero. Famiglie, tanti bambini. Le donne hanno le facce di chi lavora tutto il giorno fuori casa, fuori dall'immaginario comune della donna araba tutta casa e famifglia, che spesso per un certa visione orientalistica siamo abituati a conoscere. Certamante ci sono dlle enormi differenze tra La Tunisia rurale e quella delle città.
Il cibo è discreto, ma il contesto è per turisti. Arriva pure la banda di suonatori ad allietare la giornata. Anche Edouard e Marinette si rendono conto che non è esattamente ciò che si aspettavano e si ricordavano. Ma va bene. Mangiamo vari antipasti piccanti e carne di agnello.
Il locale vuol darsi più una parvenza occidentale, europea, con aspetti folkloristici arabi, anche se non ci portano il vino, che Edoaurd dice di aver bevuto le altre volte in cui era venuto a mangiare.
Appena fuori dal ristorante, a pochi metri, raggiungiamo la casa del nonno materno di Marinette, abitata ormai da decenni dai vecchi contadini tunisini della antica famiglia italiana, ormai proprietari, che non si aspettano l'improvvisa visita.
Arriviamo in pochi minuti. Dalla strada asfltata si estende fino alla casa un vecchio uliveto sulla splendida terra rossa.
Ci passiamo in mezzo.
Sotto un ulivo tre contadini di diversa età parlano tra di loro. Edouard e Marinette li riconoscono subito. Il primo di loro, titubante, ci viene incontro. Avvicinandosi all'auto riconosce la coppia.
L'eccitazione per l'inaspettato evento è incontenibile. Lebes? Lebes? Stai bene? e ride dalla contentezza. Gli altri due fanno lo stesso qualche secondo dopo. Sono arrivati gli italiani! Posteggiamo di fronte la casa.
Il più vecchio, il nonno della famiglia, vestito in una tunica marrone, con in testa il fez arabo di colore rosso, ci abbraccia e ci bacia tutti. Felice di vedere Marinette, per lui come una nipote emigrante, che ogni tanto ritorna nei suoi luoghi d'origine.
Il vecchio parla soltanto in arabo, come del resto tutta la famiglia. Marinette invece, pur essendo nata in Tunisia, conosce poco la lingua locale, anzi capisce alcune parole, perché come tanti altri bambini della sua epoca ha fatto la scuola francese, parlando soltanto in siciliano in casa. Può sembrare incredibile ma questo accomuna tanti siciliani nati e cresciuti sotto il protettorato francese, molti dei quali hanno imparato l'italiano una volta rientrati in Italia. Mentre Edouard, nato e vissuto a Tunisi, ha imparato anche l'arabo. Infatti per tutti noi, da quel momento, sarà la guida orale della giornata.


L'aria è calda, piacevole. Rimaniamo fuori la casa, nel cortile antistante. Arrivano gli altri familiari. La moglie di qualcuno, la nonna, i ragazzini. Io, sempre con la videocamera accesa, filmo. Questo, specialmente all'inizio, stupisce, crea stupore e imbarazzo.
Pure a me fa lo stesso effetto. Non amo essere così invasivo. Ma questi momenti devono essere fermati nel tempo, perché unici e spontanei. Non è facile realizzare una perfetta narrazione del tutto, ma catturo quel che posso.
Marinette ed Edouard tirano fuori da una borsa un paio di occhiali per la nonna, che in una visita precedente aveva espressamente chiesto le fossero portati dall'Italia: una montatura color rosa shocking, un po in contrasto con gli abiti tradizionali dell'anziana donna. Ma lei e tutti sembrano entusiasti.
Poi ci si siede tutti intorno la figura centrale, il nonno, il vero narratore di quel pomeriggio luminoso.
Io non capisco quasi nulla di quel che dicono.
Laura qualcosa più di me. Allora ecco Edouard venirci in soccorso. Emergono i ricordi dei vecchi italiani, della vita di cinquanta, sessanta anni fa. Tutti loro, in fondo, sono un po' come i parenti lontani che si ritrovano. Alcune delle donne intanto hanno preparato il the.
Il the in Tunisia è una bevanda importante, come il caffè da noi. Lo fanno in tanti modi, Il the nero è quello che bevono più spesso. Con i pinoli, con le mandorle, alla menta. Ma quello che ci offrono in quel momento è qualcosa di più: un concentrato meraviglioso e denso, dentro un bicchierino piccolo e sottile. Un sapore forte e antico.
Penso, in quell'istante, che la Tunisia sia tutta riassunta in questi pochi sorsi, corposi e decisi. Me lo suggerisce il colore e l'odore, inizialmente.
Poi comincio a sorseggiarlo. Sembra un liquore. Credo di averne bevuto più di uno.
Guardo e osservo con attenzione il posto in cui mi trovo. La casa antica del nonno di Marinette. Entriamo nella prima stanza con discrezione. Marinette mi dice che nulla assolutamente è cambiato. Il pavimento antico, le finestre. Mi racconta dei mobili dei nonni che stavano in questa e nell'altra parete. E in quanti si dormiva quando c'erano le grandi feste familiari.
Si organizzavano tutti, dove potevano, con materassi e coperte. Gli uomini in questa stanza, le donne e i bambini in altre, al piano di sopra. Guardo intorno. Stuoie e coperte sul pavimento. Sono i letti in cui dormono i nostri ospiti. Tutte così queste case contadine. Essenziali. Pochi mobili, il tradizionale divano in cui ci si siede intorno per discutere e fumare la “chicha”, tappeti, frutta e casse affastellate. Un mondo contadino, come quello che esisteva ancora 50 anni fa in Sicilia.
Tutto scivola morbidamente per circa un'ora.
Ma abbiamo ancora una tappa importante di questo viaggio di un giorno intenso. La visita a Mammia, la vecchia contadina di casa Pendola, che aiutava la madre di Marinette nei lavori di casa.
Nelle sue pagine Marinette descrive con cura le scene delle lunghe giornate in cui le donne restavano in casa a sbrigar faccende, creando spontanemente quel tessuto di relazioni tra genti di culture diverse per certi versi, ma anche somiglianti per altri, quando il Mediterraneo, che separa queste due terre, nel corso della storia, nel bene e nel male, ha creato le condizioni di un dialogo aperto, lasciando nell'una e nell'altra terra tracce di passaggi importanti.
Il tempo è trascorso, bisogna proseguire. Allora salutiamo il nonno, la nonna, gli altri contadini che, prima di andar via, ci regalano una quindicina di uova fresche delle loro galline.
Lasciamo la casa tra gli ulivi e la terra rossa e ci dirigiamo verso El Fahs, il villaggio dove abita Mammia con la sua grande famiglia.
El Fahs è un villaggio ad alcuni chilometri dopo Bir Halima. Sorge lungo la via maestra che taglia una serie di villaggi rurali. Anche questo, come Bir Halima, è un villaggio povero. Sorgono, tra le poche abitazioni vecchie, case recenti costruite sul fango, senza nessun tipo di organizzazione urbanistica.
Ognuno costruisce come gli pare e come può.
I primi dieci minuti sono un girare e rigirare in macchina, senza trovare la casa. Marinette dice di prendere di qua, ed Edouard di girare di là. Finiamo per domandare ad alcuni passanti, e figurarsi se in un posto cosi piccolo non sanno rapidamente indicarti dove abita Mammia. L'aria è calda.
Arriviamo.
Entriamo nella casa, passando dal cortile, e subito siamo nella stanza dove sta seduta, sul grande tappeto, Mammia, scalza, come tutti gli altri astanti. Ci sediamo tutti sui tappeti. L'abbraccio tra le due donne, l'italiana e l'araba, è quello di chi ha un legame profondo e antico.
È una vecchia donna con un volto più giovane rispetto la sua onorabile età, quasi senza rughe, liscio. Me lo ero immaginato, al contrario, un perdersi di solchi e un confluire di segni. Come la contadina che avevamo incontrato l'anno scorso a Bir Halima, una maschera di mille anni il suo volto.
Mammia parla con Marinette in arabo, e Marinette, che non lo parla bene, si imbarazza e chiede spesso aiuto ad Edouard, che se ne sta di fronte, seduto comodamente sul tappeto, a parlare e bere the con gli uomini di casa.


La casa comincia a riempirsi di persone. Sono le altre figlie di Mammia, i generi, i nipoti. Di tutte le età, vengono a salutarci e a offrirci delle cose. Prima il the. Poi una delle nipoti più giovani di Mamia, una bella ragazza, mi porta a vedere la preparazione del pane di casa, in tunisino "tabuna", che un'altra sorella o cugina sta per cuocere nel cortile.
Un grosso calderone, sembra una grossa giara, infiammato all'interno, è l'elemento principale. Accanto una teglia in cui, sotto una coperta, sono tenute al caldo delle forme di pane crudo. La cosa che mi piace di più è vedere la ragazza che maneggia l'impasto, come con gesti rapidi, maestria, esperienza, fa aderire le forme alla parete interna del pentolone, lungo il perimetro. Il pane cuoce rapidamente. Ma non c'è tempo per vederlo sfornare perché bisogna andare nella casa vicina di una delle figlie sposate di Mammia, dove si prepara altro tabuna e un cous cous meraviglioso, cucinato dalla giovane nipote.
Entriamo in cucina, trovo già Edouard circondato da un folto gruppetto di piccoli e adolescenti, tutti a mostrargli foto personali e di famiglia .
La figlia di Mammia, che filmo ai fornelli di una cucina a gas, cucina ininterrottamente del pane libanese, che si mangia con harissa e olive. Lei ride sempre e mi abbraccia e bacia. È molto contenta.
Poi ancora fuori nel cortile di casa ci sediamo intorno una tavola improvvista, e continuiamo a mangiare. Tutto è davvero squisito, ma siamo così sazi che dobbiamo fermare la loro infinita voglia di ospitalità e accoglienza.
Ed è proprio nel momento in cui stanno per sgozzare una gallina da offrirci per cena, che troviamo il coraggio di rifiutare. Dobbiamo andare. Si è fatta sera e bisogna comunque rientrare a Tunisi.
È stata una giornata intensa. Siamo stanchissimi.

Domenica 14 aprile
Siamo andati a trovare Fausto Giudice, che già avevamo incontrato la sera della proiezione a Dar Bach Hamba. Fausto è uno dei due protagonisti del nostro cortometraggio Kif Kif - siciliani di Tunisia. È sempre molto occupato e la sua casa è un crocevia di gente proveniente da tutti i posti del mondo.

Nel pomeriggio appuntamento con Silvia Finzi, a casa sua.
Silvia abita dopo il quartiere de La Goulette, al Kram, direzione Cartagine. Lungo la costa nord-ovest di Tunisi si susseguono tutti questi vecchi borghi di mare, alcuni dei quali diventati negli anni di Ben Ali dei veri e propri quartieri residenziali, dove abita gente facoltosa.
Le Kram, come la Goulette, conserva invece un profilo popolare.


La casa di famiglia Finzi è una bella costruzione dei primi del novecento, stile coloniale. Un bel giardino antico tutt'intorno, dove immediatamentemi mi immagino bere ottimi the neri, seduto al fresco di uno degli storici e grandi alberi della casa, con uno dei tanti libri della produzione Finzi.
Silvia abita con altre due donne italiane, una da almeno vent'anni a Tunisi e l'altra appena arrivata, insegnante di italiano alla Manouba, l'Università degli studi di Tunisi, dove Silvia insegna la stessa materia.
La famiglia di Silvia si è installata in Tunisia due secoli addietro. Il padre Elia, recentemente scomparso, era il fondatore della stamperia di famiglia. Storico personaggio della città, ha lasciato alla figlia un'eredità di enorme importanza: la memoria storica degli italiani in Tunisia è parte del lavoro costante della casa editrice che porta il loro nome.
Il Corriere di Tunisi, di loro proprietà, è l'unico giornale italiano stampato dalla metà degli anni cinquanta, quasi ininterrottamente.
L'incontro con Silvia e le sue amiche è molto interessante e piacevole. Ognuno racconta la sua storia. Rifiutiamo all'unisono qualsiasi tipo di formalità. Noi abbiamo portato dei dolci locali, loro ci preparano il caffè con la moka. Si parla del nostro progetto e Silvia ci conduce dentro alcuni aspetti importanti della storia italiana in questo Paese. Questo ci consente di assumere prospettive nuove.
La vicenda dei siciliani di Tunisia, insomma, raccontata spesso come un processo meno doloroso di altre emigrazioni nel mondo, non nasconde invece aspetti difficili e duri, che hanno segnato la vita di migliaia di persone.
Si è fatta sera. Dobbiamo aver fatto simpatia a Silvia e alle amiche. Ci invitano a cena, senza che lo avessimo concordato prima. Cosi, quel che si può improvvisare in cucina andrà bene a tutti.
Una bella serata, vissuta con la rilassatezza e intensità, come si fa tra vecchi amici.
Sappiamo, io e Laura, che questo incontro apre a nuove strade da percorrere, fondamentali per la nostra ricerca.


Lunedì 15 aprile
Oggi abbiamo un appuntamento importante: dobbiamo intervistare alcuni rifugiati politici che da un mese stanno protestando davanti la sede dell'UNHCR a Tunisi (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati).
Come l'anno passato, anche questa volta abbiamo un progetto ben preciso, che si incrocia al nostro percorso di ricerca: a Febbraio 2012 eravamo stati per tre giorni a sud della Tunisia, ai confini con la Libia, per realizzare un reportage sul campo profughi di Shousha, allestito nel 2011, dopo lo scoppio della guerra in Libia. Quel reportage poi è stato pubblicato su internet da FaiNotizia-Radio Radicale,
suscitando forti reazioni da parte dell'UNHCR e del Governo Italiano. I rifugiati che protestano oggi provengono da Shousha. Dobbiamo dirigerci verso Lac du Berge, un grosso quartiere che sta nascendo a Sud di Tunisi, intorno al lago che chiude anche il porto della Goulette.
Lac du Berge è chiamato anche Tunisi 2 ed è un grande investimento con capitali provenienti dall'Arabia Saudita.
Giriamo per ore alla ricerca dell'Ufficio delle Nazioni Unite, sotto un sole bollente, e malgrado alcune indicazioni, non riusciamo a trovare il posto, al punto che decidiamo di concordare un nuovo appuntamento per il mercoledì successivo.

Martedì 16 aprile
Nel pomeriggio abbiamo l'appuntamento con Il Sig. Ingrassia, il novantenne arzillo incontrato a Dar Bach Hamba, in occasione della giornata a Tunisi dedicata ai siciliani di Tunisia.
Il Cavaliere Ingrassia vive in una strada abitata da molti Italo-tunisini fino al grande esodo verso l'Europa, negli anni sessanta del novecento. Il Cavaliere è uno fra i tanti che rimasero in Tunisia e ricominciarono una vita nuova, in una rinnovata situazione politica.
Vive in quella casa da moltissimi anni. Ci accoglie con molto entusiasmo. È un uomo solo da tempo dopo la morte della moglie, e anche se il figlio abita nello stesso piano, lui non disdegnerebbe, alla sua gloriosa età, di avere una compagna al suo fianco.
È una casa italiana. Un enorme televisore al plasma. Mobili di gusto. Sembra che sia stato uno dei suoi tanti lavori in passato. Vuol subito dirci qualcosa, un suo preciso punto di vista sulla questione degli italiani di Tunisia. Io ho portato la videocamera con me.
Ribadisco, la prima volta che incontro un soggetto che ho intenzione di intervistare, non porto mai con me né camera né nessun altro mezzo che spesso suscita fastidio, imbarazzo, insomma una certa invadenza. Ma ci sono occasioni che sembrano irripetibili, e quindi forzo la cosa. In ogni caso Laura insiste sul fatto di registrare qualcosa. Allora filmo.
Il Cavaliere afferma che la migrazione dei siciliani in Tunisia avvenne certamente in un paese arabo, ma in quanto protettorato francese. I siciliani arrivavano in Tunisia perché sapevano che soltanto i francesi potevano offrire loro lavoro, e non certo la Reggenza del Bey, ormai in secondo piano rispetto alla potenza colonizzatrice. I rapporti si svilupparono comunque, almeno da un punto di vista lavorativo, tra europei.
Poi naturalmente ci parla della sua famiglia, del padre, nato come lui in Tunisia, grande uomo di iniziativa che, come detto all'inizio, creò un azienda di camion per trasporto merci con i primissimi motori a diesel. Lui fece la fortuna di questa famiglia. Era l'epoca in cui gli italiani, la maggior parte siciliani, si erano affrancati da una iniziale condizione di povertà ed erano diventati piccoli imprenditori. In tanti altri settori cominciarono a nascere piccole aziende che crearono un'economia di un certo rilievo. Siciliani invece erano i nonni del Cavaliere, venivano da Agrigento e Favignana.
Ci tiene a farci vedere le foto appese ai muri del suo piccolo studiolo attiguo al salone dove siamo ospitati.


Dopo averci offerto una tazza di caffè, ci invita a fare un giro per Tunisi con la sua macchina. Vuol farci da Cicerone. Accettiamo volentieri. Mi colpisce da subito questa sua voglia di fare, in un caldissimo pomeriggio di aprile. A quasi novant'anni guida in mezzo il traffico di una città caotica.
Dice: “Non riesco a stare in casa troppo tempo, devo ad un certo punto uscire e fare qualcosa”!
Andiamo in uno di quei grandi Hotel multifunzione, dove lui spesso passa le sue giornate, tra eventi culturali e convegni scientifici. Ma si è fatto tardi. Non tanto per noi, ma è il Signor Ingrassia ad avere impegni: alle 19 deve trovarsi in Avenue Bourghiba. Una serata al Teatro Comunale, disegnato e progettato da un architetto italiano agli inizi del XX secolo. Ci lascia in centro e ci saluta calorosamente, ma col piglio di uno che ha molta fretta e deve andare.
Fantastico, diremo subito dopo.

Mercoledi 17 aprile
La mattina abbiamo un appuntamento all'Istituto italiano di Cultura. Grazie a Federico Costanza, direttore di Dar Bach Hamba, un amico, siamo ricevuti dai vicedirettori, Maria Vittoria Longhi e Maurizio Guerra.
Quello che all'inizio può apparire più formale, come capita di norma quando hai un appuntamento istituzionale, si trasforma in un bel momento di scambio e condivisione.
Noi esponiamo il nostro progetto e loro si mostrano da subito aperti e interessati.
La dottoressa Longhi in particolare ci guida all'interno dell'Istituto. Facciamo poi un giro negli spazi e visitiamo la biblioteca, dove ci fermiamo a parlare con altre persone che sopraggiungono. Infine ci fanno omaggio di alcuni preziosi volumi sulla storia degli italiani in Tunisia, a firma Finzi Editore.
Anche questo incontro si rivela fondamentale per il progetto a cui stiamo lavorando. Un altro importante passo è stato fatto.

Nel pomeriggio ci prepariamo per incontrare i rifugiati che protestano sotto la sede dell'UNHCR e la responsabile dell'Ufficio di Tunisi. Arriviamo questa volta a destinazione senza problemi.
Quando scendiamo dalla macchina troviamo i rifugiati sistemati alla meno peggio, in terra, lungo il bordo della strada, con tende, cartoni, coperte. Vivono da quasi due mesi in queste condizioni. Ci sono famiglie con bambini, uomini e donne giovani, ma anche alcuni anziani. Tutti loro hanno ottenuto lo status di rifugiato, ma protestano contro la decisione dell'UNHCR di aver scelto la Tunisia come paese ospitante.
Intervistiamo alcuni di loro. Poi registriamo un'intervista con la responsabile dell'Ufficio di Tunisi, signora Shultz. Quello che cogliamo dalle sue parole è l'atteggiamento di chi è sempre sicuro della strada imboccata, e qualsivoglia altro modo di trattare la questione è per lei pregiudiziale e precostituito. L'Alto Commissariato, che è un organismo delle Nazioni Unite, si muove sempre all'interno di logiche politiche complesse, molto spesso ottuse e poco propense a risolvere seriamente i problemi. L'anno scorso nel nostro reportage avevamo dato voce ad un gruppo di Nigeriani, e alcuni singoli di altre nazionalità, che denunciavano gravi commistioni tra l'UNHCR e i rappresentanti politici dei paesi di provenienza. Centinaia di profughi, a cui non è stata riconosciuta nessuna protezione, sono rimasti a tutti gli effetti in un limbo giuridico che non lascia loro molte speranze per il futuro.
Naturalmente, per correttezza, siamo consapevoli che questa non è l'unica lettura che vogliamo dare al lavoro svolto in questi anni dall'UNHCR, che è riuscita a conseguire risultati importanti e fondamentali in materia di profughi e rifugiati politici.


Ritorniamo ancora fuori, per una mezzora, tra chi protesta.
In queste situazioni i bambini ti colpiscono di più. I loro sguardi sono quelli di chi vive tutto ciò come un gioco, ma soffre la condizione come tutti gli altri. I giocattoli miseri ed essenziali, colmano per qualche istante i vuoti di una vita disperata. Ci chiediamo quanto resisteranno.
Sono tutte persone di diversi paesi africani che avevano una vita più o meno accettabile in Libia, prima della caduta di Gheddafi. Sappiamo pure però cosa ha comportato per tanti africani neri vivere sotto le persecuzioni e le torture del vecchio regime libico.
Migliaia di migranti africani hanno conosciuto le terribili carceri di quel paese, sponsorizzate dai governi europei, in primis quelli italiani di qualsiasi colore politico.


Dopo la fine del dittatore libico, la fuga per tantissimi di loro verso il campo di Shousha. Mesi di attese e di risposte in mezzo la sabbia e il caldo feroce d'estate e le tempeste e il gelo di inverno, nel deserto.
E poi, i tanti che hanno ottenuto la protezione internazionale e il resettlement, un programma di reinserimento in altri Paesi europei o americani, e i tanti altri condannati a rimanere nella condizione di chi sarà clandestino dovunque.
Questi che incontriamo, anche se rifugiati, dicono di non sentirsi al sicuro in Tunisia e vogliono una soluzione diversa. In effetti la Tunisia non ha ad oggi un governo stabile, e dalla fine della rivoluzione non ha ancora elaborato la sua costituzione. La protesta è ancora in corso.

Giovedì 18 aprile
La sera, dopo una giornata rilassante, ripartiamo dalla Goulette per tornare a Palermo. Le solite ore al porto, col disbrigo di tutte le pratiche per imbarcarsi con la macchina.
Durante la lunga fila per entrare in nave, come sempre, uomini, perlopiù giovani, giovanissimi, provano a venderti dei souvenir, ultimo disperato tentativo, prima di prendere una barca e provare la svolta in Europa, mi dice un ragazzo di diciassette anni.
Qualcun altro, più avanti, ci racconta che prima della rivoluzione aveva un buon posto di lavoro e riusciva a portare il pane a casa. Oggi vende cammelli di spugna, accendini, qualche dattero confezionato da tempo, un po' stantio, perché nessuno li compra.
Alla fine un bambino, che quasi non vediamo, perché più basso dello sportello dell'auto, appare silenziosamente, con lo sguardo furbo e simpatico di chi vuol guadagnare qualche centesimo e ci porge una piccola composizione di fiori bianchi di gelsomino, da sempre simbolo di questo Paese. Noi li compriamo e gli sorridiamo.